Lettera di Enrico Berlinguer

Pubblicata insieme ad altre nel 1977 da Giulio Einaudi che nel presentarla scrive: «Dove l'autore, dando prova di conoscenze giu­ridiche non comuni, dimostra che il diritto va inculcato nel popolo.»

 

Caro X[1],

ognuno ha avuto modo di notare, chi con compiacimento, chi con apprensione, che le tensioni politiche del paese tendono, ormai da qualche anno, a sfogarsi in episodi di aperta e brutale illegalità. Non voglio dilungarmi sulle ragioni che hanno permesso l'insorgere di questa situazione sudamericana anche nel nostro paese, né sugli interventi di prevenzione e repressione che potrebbero contenere il fe­nomeno, e nemmeno intendo indagare sulle matrici politiche e ideologiche che talora fanno da supporto alle varie azioni criminali: rifles­sioni certamente necessarie, ma di per sé sterili ove non siano inquadrate in un robusto telaio teorico che ci permetta di affrontare in modo sicuro e sistematico gli inevitabili fenomeni criminali che via via si presentano, dando loro una proficua collocazione nella società.

Questa preliminare indagine teorica è spe­cialmente necessaria in un momento, come l'attuale, in cui la gioventù istintivamente vici­na al marxismo si trova però assolutamente disorientata di fronte a problemi quali la legalità, il diritto, la giustizia, lo Stato, in conseguenza della libera circolazione di troppe formulazioni (per lo più confuse, sconnesse, velleitarie) attinenti a questo ordine di problemi. Un radicale repulisti ideologico - particolarmente in materie così delicate - è diventato oggi improcrastinabile; non è più tollerabile che settori sempre crescenti della gioventù va­dano allo sbaraglio in azioni politiche illegali (oltre che suicide per sé medesimi e dannose per lo sviluppo civile) sulla scorta di una malin­tesa interpretazione di certi assiomi marxisti quali, ad esempio, « l'estinzione dello Stato e del diritto »: formulazioni che vanno invece correttamente interpretate pena l'eventualità che vengano intese alla lettera e che le anime semplici credano, in buona fede, che ogni lotta antigiuridica ed antistatale sia, in sé, un avan­zamento verso il comunismo. Ma procediamo con ordine.

Secondo una tesi ormai classica il governo dello Stato non è altro che il comitato d'affari della borghesia. Secondo Lenin il periodo di transizione verso il comunismo è caratterizzato dalla presenza dello Stato, ma di uno Stato particolare, « senza borghesia »; nel comuni­smo pienamente maturo lo Stato infine si estingue. Queste le tesi a tutti note.

Ora, a dispetto dell'involuzione sovietica dove l'apparato statale, lungi dal deperire, si è invece col tempo consolidato, noi in Italia sa­remo forse i primi ad assistere ad un raro avvenimento storico: l'estinzione dell'apparato statale e giuridico. Non ti suoni esagerata né avventuristica questa mia affermazione che ora vedrò appunto di motivarti.

Qualche anarchico ha detto che: « il super uomo statale è la forza dei deboli ». Per converso, aggiungo io, esso è la debolezza dei forti. Se ne deduce che i forti (gli individui autono­mi, responsabili, autodisciplinati) non hanno più, né mai hanno avuto, bisogno del comando statale, dei suoi imperativi, delle sue norme giuridiche, della minaccia di sanzioni; e che i deboli (i succubi, i timorosi, gli inetti, la trup­pa) hanno invece bisogno dello Stato come scuola di energia. Per i primi lo Stato non serve più (e ove costituisca una fonte di privi­legio, ecco una ragione in più per estinguerlo!.), per i secondi funge da scuola di forza civica; ma una volta raggiunto l'obiettivo di far parte­cipare anche i cittadini che si trovano in condi­zioni di svantaggio, esso non ha più ragione di essere. Lo Stato deve, in altre parole, costringere il cittadino assenteista a partecipare, fargli coraggio insomma; non soltanto con il tra­dizionale voto, ma anche in forme più dirette. Nel momento in cui la partecipazione di tutti è alfine raggiunta, ecco che lo Stato ed il suo apparato giuridico diventano strutture comple­tamente inutili.

Ma, si potrà obiettare, un conto è la parteci­pazione ed un altro è il comando, l'ordine l'imperativo; non è pensabile per ora una si­tuazione in cui la partecipazione si sviluppi armoniosamente, senza antagonismi, senza conflitti di interessi. Ne sono ben conscio. Tuttavia, ove il comando sia l'espressione di u­n autonomia di massa, il prodotto della volon­tà popolare, esso perde allora le sue caratteri­stiche odiose, arbitrarie e viene quindi eseguito spontaneamente, senza necessità di ricorrere a coazione. L'imperativo non dovrà mai più configurarsi come eteronomo, come la manifesta­zione capricciosa di una volontà imperscrutabi­le ed arcana. Il gelido « tu devi » deve diventa­re « tu devi perché hai collaborato a formare la volontà », l'arbitrario comando deve diventare un comando motivato, un comando il cui fine sia a tutti palese.

Il precetto viene allora eseguito spontaneamente e la coazione statale non è più necessa­ria.

Solo gli ingenui, peraltro, hanno creduto e credono che l'ordine giuridico venga eseguito dall'individuo in ragione della sanzione minac­ciata. Gli anarchici sono i candidi campioni di tale credenza. Polizia e tribunali invece, non sono assolutamente indispensabili per il rispet­to della norma giuridica. Già nel '26 il grande giurista sovietico Pasukanis, caduto poi in disgrazia ed infine giustamente riabilitato post mortem, osservava acutamente che « i debiti non sono saldati dagli individui perché lo sa­rebbero comunque, ma specialmente perché i debitori conservino il loro credito in futuro ». Sostituisci ai « debiti » qualsiasi obbligo giuri­dico e ti renderai facilmente conto che il ri­spetto della norma non dipende né dal timore della sanzione e meno che mai dalla intima convinzione che la norma sia giusta, ma uni­camente dalla necessità, entro cui dobbiamo costringere l'individuo, di conservare la pro­pria credibilità per il futuro.

E la credibilità di un individuo è il suo cre­dito, il moderno capitale che si è materializzato nel suo essere, il suo lavoro passato che an­nienta la sua vita presente. Pagare i debiti per avere credito in futuro, non violare la norma per potere beneficiare dei privilegi che essa conferirà: ecco la logica che ci permetterà di giungere alla scomparsa dell'apparato coercitivo statale. La forza del diritto non sta nel fatto che le violazioni sono sanzionate, ma nel fatto che il popolo pensa ed opera giuridicamente.

La nuova regolamentazione penitenziaria - tanto osteggiata dai giuristi e dai politici più retrivi - dà forza sperimentale alla mia asserzione; ai detenuti è stata concessa, a certe con­dizioni, la libera uscita: quasi tutti sono ritor­nati in carcere a tempo debito. La norma im­poneva di ritornare benché la fuga fosse possibile; ma quale fuga? La fuga impossibile dal capitale? Hanno scelto la norma, sono tornati in carcere avendo compreso, istintivamente ma più acutamente di molti velleitari ultrasinistri, che è impossibile fuggire dal capitale poichè esso si è materializzato nell'essere di ognuno.

Che senso ha allora parlare di estinzione del diritto? L'enunciato va inteso non tanto come scomparsa del diritto in sé, quanto delle sue tradizionali manifestazioni visibili: tribunali, carceri, polizia, etc.. L'apparato preposto all'esecuzione del dettato giuridico deve diventare, da accentrato in pochi organi specializzati qua­le è stato, diffuso e materializzato nel corpo vivente della società, nel popolo insomma, ed in ogni suo componente, così da non essere più visibile come corpo separato.

L'antagonismo giuridico deve trasformarsi, insensibilmente ma sicuramente, da intersog­gettivo a infrasoggettivo. Il diritto moderno non sarà eteronomo, ma autonomo, sarà il diritto del foro interno ed il nòmos riassumerà infine il suo significato primitivo nel quale il concetto di legge non si era ancora separato da quello di costume ed il comando giuridico non era altro che la regola di condotta della comunità.

Sarà questa, in certo qual modo, la realizza­zione dell'ideale anarchico di una società senza leggi ove la norma viene spontaneamente ac­cettata da tutti e l'obbedienza è garantita sol­tanto dal timore di essere escluso dalla comu­nità e dai suoi benefici, escluso dall'unica co­munità che dà benefici, la comunità del capitale.

Un diritto senza coercizione, un diritto pe­netrato nell'uomo al punto di creare in esso una seconda natura (o forse un'unica natura), un diritto non più freddo ed inerte, ma vivo e operante grazie al quale ogni uomo divenga infine una norrna giuridica vivente, ecco l'obiettivo ultimo!

Già da tempo i filosofi del diritto più autorevoli concordano sul fatto che il diritto non mira alla conoscenza della vita; non è una tecnica, uno strumento d'indagine. Esso vuole invece dirigere la vita stessa. E quale sistema più efficace per dirigere la vita se non pene­trarvi dentro, materializzandosi nell'uomo?

Certamente questo processo di antropomor­fismo del diritto non sarà indolore. Già nell'800 il grande giurista Jhering ricordava che la na­scita di ogni nuovo diritto è accompagnata da « tracce di sudore e di sangue » ed anche noi assisteremo qua e là a processi patologici di resistenza degli individui alla recezione del diritto.

In che modo creare questa natura giuridi­co-umana? Rendendo sempre più labili i confi­ni fra il comportamento secundum legem ed il comportamento tout court, convincendo il po­polo che la condotta « giusta » non è tale in virtù di una legge che la prescrive, ma in ra­gione della sua intima ottimalità e necessità, annullando gradualmente i confini che distin­guono la legge, il decreto e le altre tradizionali fonti del diritto dalle forme di propaganda. Del resto già Lenin aveva compreso che la legge è una forma di propaganda e che essa funge, per lo più, da parola d'ordine. Medita queste parole di Il'ic così ricche di saggezza politica:

« Al semplice operaio e al semplice contadino presentammo le nostre idee sulla politica d'un tratto nella forma di decreto. Il risultato fu la conquista di quella enorme fiducia che avem­mo ed abbiamo fra le masse popolari ».

La legge deve risolversi insensibilmente in propaganda e la propaganda in legge. Il citta­dino deve eseguire una legge spontaneamente, come se essa fosse una parola d'ordine propagandistica liberamente accettata, e deve, per converso, obbedire alle parole d'ordine (qua­lunque sia il medium che le diffonde) come se fossero norme giuridiche.

In quest'opera siamo già sulla buona strada. Chi non si accorge infatti che i mass media (giornali, televisione, direttive sindacali) emanano vere e proprie norme giuridiche quanto alla loro obbligatorietà, veri diktat a cui il cittadino difficilmente sfugge, e le leggi invece, se promulgate con un opportuno battage pub­blicitario, assolvono ad una insostituibile fun­zione propagandistica?

Questa progressiva identificazione fra legge e propaganda deve essere accompagnata da una graduale moltiplicazione dei centri di produ­zione dei diktat; si tratta perciò di attribuire potere normativo non più soltanto al centro, ma altresì alla periferia (intendo: enti locali, sindacati, comitati di quartiere, aggregati u­mani di qualsiasi sorta), diluendo la funzione legislativa nel popolo stesso e rinunciando alla mediazione dei suoi rappresentanti politici.

Il popolo, caro compagno, ha bisogno del diritto e non può fare a meno di pensare giuri­dicamente. Concediamogli allora questo diritto che lo fa vivere, ma non gratuitamente; deve guadagnarselo, deve lavorare in proprio per la formazione del diritto, deve contribuire atti­vamente a creare la iuris dictio, deve esprimer­si, partecipare, prendere la parola. Troppo comodo beneficiare di una congrega di specialisti (i giuristi ed i politici) che ti sfornano la merce già confezionata! Merce che poi, come ogni merce, lascia tutti insoddisfatti ed è fonte di infinite lagnanze. Che il popolo si produca la sua mercanzia giuridica da sé e, se è insoddi­sfatto delle norme che si è dato, ebbene che le cambi! Purché, beninteso, continui a darsene.

Voglio dire con questo che gli uomini di legge devono scomparire? No di certo per ora, ma la loro funzione va sensibilmente riconsi­derata. Non è più pensabile che il giurista con­tinui ad essere la categoria universalmente più disprezzata, non è più accettabile che l'opera­tore giudiziario continui ad essere tacciato di « servo del padrone », di « cane da guardia del potere ». A costoro vanno attribuiti compiti nuovi, il loro ruolo professionale va convertito e nobilitato. Al popolo toccherà creare la co­scienza giuridica ed al giudice toccherà la regia dell'infrazione di tale coscienza.

Il giurista non può più limitarsi a produrre diritto (sia esso sotto la forma astratta di legge o concreta di sentenza): questo compito lo as­sumerà il popolo. Il magistrato deve invece mettere in scena la rappresentazione dell'in­frazione, deve condurla, dirigerla e, se del caso, crearla; suo compito sarà di rendere la viola­zione della legalità il più appassionante possibile. Basta coi processi smorti, noiosi, cavillo­si! Basta con le indagini giudiziarie burocrati­che, a tavolino, condotte a colpi di scartoffie! Al popolo non basta più il vecchio ludicrum circense, vuole uno spettacolo più vivo, più appassionante, che odori di « sangue e di sudo­re » per dirla con Jhering, uno spettacolo che abbia per palcoscenico non più soltanto le aule dei tribunali, ma la società tutta.

Del resto anche il diritto antico si serviva di formule e di rituali particolarmente solenni, sì da creare una vita giuridica accanto a quella reale: il processo era una rappresentazione drammatica. Ciò può valere anche oggi a con­dizione, beninteso, che gli effetti scenici siano aggiornati alla sensibilità moderna ed il dramma giuridico venga condotto in ogni dove.

L'apparato repressivo deve quindi continua­re ad esistere ma non più per condannare e reprimere (si tratterà anzi, di cambiarne anche la denominazione) bensì per rappresentare, quanto più realisticamente possibile, lo spetta­colo della guerra di classe.

La prospettiva che indico è confortata dall'atteggiamento della stragrande maggioranza della gioventù, anche nei suoi settori più ever­sivi e ribelli. La gioventù, appunto, non ha mai smesso di pensare ed agire giuridicamente. Le parole d'ordine hanno continuato ad essere espresse in forma giuridica, anche le più radi­cali. Quante volte ho sentito scandire « MSI fuorilegge; uccidere un fascista non è reato; viva la giusta (giusta non significa forse secun­dum legem?) lotta di ... ». E perfino le Brigate rosse non si sono forse espresse giuridicamente istituendo tribunali proletari ed appellandosi alle convenzioni di diritto internazionale?

Si tratta, in tutti questi casi, di lotta politica che non scalfisce in nulla il senso della necessi­tà del diritto; il contenuto di quest'ultimo è, a ben vedere, assolutamente indifferente: il tipo di potere politico lo determina. Ma il diritto è una sicurezza per il cittadino ed egli lo sa. Che ne sarebbe di un popolo senza diritto? Non oso pensarlo. Lasciamo allora che il popolo si dia le sue leggi, che le modifichi a piacere, che si batta anche per stravolgerne il dettato. Il cit­tadino deve partecipare direttamente all'elabo­razione legislativa perché in questo campo, come in molti altri, le diserzioni non sono ammissibili.

Sì allo scontro di classe quindi, sì all'anta­gonismo di interessi anche radicale e violento purché si esprima nell'ambito della concezione giuridica. La massima di Goethe secondo cui:

Es erben sich Gesetz und Recht

Wie eme ewige Krankheit fort.

è profondamente vera e non tollera eccezioni.

Vorrei concludere con qualche cenno sulla questione del reato e della pena. I giuristi bor­ghesi più intelligenti concordano nel ritenere che la violazione della norma penale, lungi dal costituire la negazione del diritto, la sua con­testazione, la sua concreta messa in discussio­ne, ne è invece la realizzazione, l'apoteosi. Sol­tanto grazie alla violazione la norma, da astrat­ta, generica ed impersonale qual'è, trova la sua materializzazione applicandosi al caso concre­to. Se ciò è vero, dobbiamo allora essere pro­fondamente grati a tutti gli illegalisti nostrani che permettono col loro operato il funzionamento del diritto, il suo passaggio dall'astratto al concreto ed impediscono che esso resti lette­ra morta.

La violazione dell'imperativo giuridico, quando è contenuta su scala ridotta é utile, caro compagno, perché permette la messa in movimento dell'apparato giudiziario ed impe­disce la sua mummificazione, ed è addirittura indispensabile quando avviene su vasta scala perché determina l'evoluzione delle leggi e la loro rifondazione su basi moderne.

Circa la pena da irrogare all'individuo che ha delinquito, non bisogna farsi eccessive illusioni sulla sua funzione rieducatoria, a dispetto del­l'enunciato costituzionale. L'istituto di pena non deve costituire né il luogo in cui viene perpetrata la vendetta sociale, né un illusorio centro di rieducazione. Il carcere deve essere uno strumento di difesa sociale, né più né me­no; e la rivoluzione d'ottobre infatti soppresse, almeno fino al 1934, il concetto di « pena » e lo sostituì con quello di « misura di difesa socia­le ». Come intendere oggi questa formula? Cer­tamente nel senso che la reclusione non deve consistere in un'inutile afflizione per il reo. Già il Beccaria notava che una corretta politica penitenziaria deve tendere a lasciare sempre inalterata la distanza fra la società civile ed il carcere, fra la libertà e la sua privazione.

Si tratterà perciò di fare in modo che le prigioni impongano una vita austera, ma non troppo distante da quella che viene condotta nella società. Lo scopo della « misura di difesa sociale » non è quello di umiliare il recluso, né l'altro - illusorio - di rieducarlo e nemmeno, a ben vedere, l'isolamento del reo sì da impe­dirgli di recare ulteriore nocumento alla socie­tà. Non di isolamento dalla società deve più trattarsi - ché, sia detto di passata, l'antico istituto del bando a tal fine era certo più effi­cace e meno dispendioso - bensì di obbligo per il recluso a continuare a vivere in società, in una microsocietà particolare, è vero, ma ben poco diversa da quella normale.

Il carcere deve ricordare a tutti che l'evasio­ne dalla libera società del capitale non è possi­bile e deve impedire il formarsi non già di criminali, di violatori del diritto, ma invece di transfughi, di disertori dai rapporti sociali, di latitanti dell'impegno politico e civile, di assen­teisti della partecipazione democratica, di di­spersi, di morti presunti, di irreperibili. Questa deve essere la funzione del carcere in periodo di transizione; e quando la sua funzione sarà assolta e tutti avranno compreso che la fuga dal capitale è impossibile, allora esso non sarà più necessario.

Questa, caro compagno, la lotta che dobbia­mo intraprendere nel campo del diritto, un campo così negletto dalla gioventù accecata come dall'economicismo e dalla politica. Ma questa stessa gioventù continua per fortuna, suo malgrado ed inconsapevolmente, a rappre­sentarsi la vita giuridicamente e ad agire di conseguenza, anche quando decide di imbocca­re la via della lotta armata, come nel vostro caso.

Oggi è tempo che questo atteggiamento istin­tivo diventi cosciente e che tutti abbiano infine chiaro che dal diritto non si esce, meno che mai violandolo e che, quand'anche, la fuga non è inoltre auspicabile se non al prezzo di una definitiva ed irreversibile perdita del proprio credito per l'avvenire. E un uomo senza credito è come un patrimonio immobilizzato: mai riuscirà a diventare capitale.

 

 



[1] Questa lettera è stata inviata ai dirigente di una formazione politica propugnatrice della lotta arma­ta, attualmente detenuto. Per questa ragione ci aste­niamo dal pubblicarne il nome.