Illustrissimo dottor

Carlo Alberto Indellicati

Giudice delle indagini preliminari

del Tribunale di Palmi – Reggio Calabria – Italia

 

e, per conoscenza,

 

- a tutti gli Uffici giudiziari italiani;

 

- agli uffici della Guardia di Finanza.

 

 

LETTERA APERTA

 

 

Oggetto: procedimento penale n. 667/03 R.G.N.R. (n.  2468/03 R.G. GIP).

 

Illustrissimo signor Giudice,

rompendo la consuetudine dei tanti che esprimono pubblicamente il proprio pensiero solo dopo aver ottenuto un risultato positivo, scrivo le mie osservazioni in relazione al procedimento penale in oggetto, prima di conoscere la decisione del Tribunale del riesame di Reggio Calabria, al quale, lunedì 16 febbraio 2004, prima ancora di leggere il provvedimento, avevo fatto proporre richiesta di riesame della Sua ordinanza del 12 febbraio 2004 (richiesta dal Pubblico Ministero il 15 ottobre 2003 e sollecitata il 26 novembre 2003), notificata ed eseguita il 16 febbraio 2004, con la quale sono state disposte misure cautelari nei confronti miei e dei miei figli Tristano e Valerio.

Con la suddetta ordinanza, Ella, dopo aver «ritenuto» che fosse «idonea … a salvaguardare le esigenze cautelari … la misura cautelare degli arresti domiciliari da eseguirsi presso abitazioni diverse, caratterizzata dall’assoluto divieto di comunicare con persone diverse da familiari conviventi o difensori», nel dispositivo ha applicato nei nostri confronti «la misura cautelare degli arresti domiciliari, da eseguirsi presso le abitazioni di residenza indicate nel … provvedimento».

Lei sa benissimo che la norma sulle misura coercitiva degli arresti domiciliari di cui all’art. 284 c.p.p., prevede al primo comma che «Con il provvedimento che dispone gli arresti domiciliari, il giudice prescrive all'imputato di non allontanarsi dalla propria abitazione o da altro luogo di privata dimora ovvero da un luogo pubblico di cura o di assistenza.» ed al secondo comma che «Quando è necessario, il giudice impone limiti o divieti alla facoltà dell'imputato di comunicare con persone diverse da quelle che con lui coabitano o che lo assistono.».

Nel dispositivo della Sua ordinanza mancava qualsiasi riferimento al secondo comma dell’art. 284 c.p.p. e la difformità fra la misura che Ella ha ritenuto idonea e quella che Ella ha in effetti applicato ha provocato un tempo di esecuzione di oltre sei ore, giacché, anche su mia richiesta, si è reso necessario che Lei precisasse se i miei figli, che hanno la stessa residenza, potessero coabitare oppure dovessero restare in separate abitazioni. Alla fine, Ella ha precisato che dovevano restare separati e l’ufficiale che stava eseguendo il provvedimento li ha invitati a scegliere due diverse abitazioni, altrimenti uno dei due sarebbe stato condotto in carcere. Fortunatamente uno ha potuto andare a casa sua e l’altro da mia madre.

Il giorno successivo a quello dell’esecuzione, pur avendo Ella fatto sapere che avrebbe proceduto all’interrogatorio di garanzia presso il Tribunale di Parma entro la settimana, due nostri difensori, l’avv. Mariano Albanese del Foro di Reggio Calabria ed il prof. Giovanni Flora del Foro di Firenze, si sono recati al Tribunale di Palmi, dove hanno depositato la nostra richiesta di essere interrogati, anche nello stesso giorno, in quel Tribunale, nel quale ci saremmo recati, se necessario anche separatamente. Ma, Lei non era disponibile.

Nella mattinata del 18 febbraio 2004, Le ho trasmesso per fax i motivi per cui si rendeva urgente l’interrogatorio, nell’ovvia aspettativa, da parte mia, di un Suo provvedimento di revoca: alle 20:30 del 18 febbraio 2004 era fissato un incontro a Sant’Ilario d’Enza (Reggio Emilia), al quale erano invitate le 3.500 famiglie del comune; il 20 febbraio 2004 avrei dovuto incontrare il ministro dell’economia della Giamaica ed il 24 febbraio 2004 avrei dovuto incontrare il governo della Repubblica di Mauritius.

Nella serata del 18 febbraio 2004, la Sua Cancelleria ha fatto notificare l’avviso «di presentarsi liberi nella persona e senza scorta» presso un ufficio del G.I.P. del Tribunale di Roma alle ore 9:30 del 24 febbraio 2004 per interrogatorio di garanzia.

Alle ore 11 di lunedì 23 febbraio 2004, mentre stavo programmando con i miei difensori, ai quali si era aggiunto il prof. Carlo Federico Grosso del Foro di Torino, il viaggio per recarci martedì 24 febbraio 2004, a Roma, per il Suo interrogatorio di garanzia, ed il viaggio per Reggio Calabria, per partecipare con tre difensori all’udienza presso il Tribunale del riesame, nel frattempo fissata per mercoledì 25 febbraio 2004, giunse la Sua richiesta di procedere all’interrogatorio a Palmi invece che a Roma. Abbiamo accettato volentieri, pensando che all’interrogatorio avrebbe potuto partecipare anche il Pubblico Ministero che aveva richiesto le misure ed avremmo potuto chiarire le nostre reali responsabilità nella vicenda.

Le chiedo scusa se il 24 febbraio 2004 l’abbiamo fatta attendere. Siamo partiti da Parma e ci siamo fermati a Roma per far salire in aereo il prof. Grosso che quella mattina aveva un’udienza alla Corte Costituzionale. Il prof. Grosso ha raggiunto l’aeroporto di Campino senza ritardo ma per motivi di traffico aereo abbiamo dovuto attendere qualche tempo prima di partire per Reggio Calabria.

Il Pubblico Ministero non era stato informato del fatto che l’interrogatorio si sarebbe tenuto a Palmi. L’art. 294 c.p.p. prevede al comma 3 che «Mediante l'interrogatorio il giudice valuta se permangono le condizioni di applicabilità e le esigenze cautelari previste dagli articoli 273, 274 e 275. Quando ne ricorrono le condizioni, provvede, a norma dell'articolo 299, alla revoca o alla sostituzione della misura disposta.» ed al comma 4 che «Ai fini di quanto previsto dal comma 3, l'interrogatorio è condotto dal giudice con le modalità indicate negli articoli 64 e 65. Al pubblico ministero e al difensore, che ha obbligo di intervenire, è dato tempestivo avviso del compimento dell'atto.», mentre l’art. 65 c.p.p. prevede che «1. L'autorità giudiziaria contesta alla persona sottoposta alle indagini in forma chiara e precisa il fatto che le è attribuito, le rende noti gli elementi di prova esistenti contro di lei e, se non può derivarne pregiudizio per le indagini, gliene comunica le fonti.» e «2. Invita, quindi, la persona ad esporre quanto ritiene utile per la sua difesa e le pone direttamente domande.»

Nel corso dell’interrogatorio, tutto registrato, Ella mi ha invitato ad esporre i motivi della mia difesa, senza porre domande dirette.

Considerato che, delle 92 pagine della Sua ordinanza, pochissime riguardano i fatti relativi alla vicenda di Gioia Tauro che mi sono stati addebitati, mentre molte più pagine riportano stralci presi integralmente dalla notizia di reato della Guardia di Finanza e dall’ordinanza del G.I.P. di Lecce, ho provato a precisarLe ciò che era realmente accaduto, partendo dal contesto in cui si era svolta la vicenda di Gioia Tauro.

Ma Lei, con continue interruzioni, come risulterà dalla trascrizione della registrazione dell’interrogatorio, ha dimostrato di non voler conoscere la mia versione dei fatti, anche se non mi sembravano estranei all’oggetto delle indagini ed alla personalità dell’indagato.

Ho provato a riferirLe – come ho potuto fare nel pomeriggio con il Pubblico Ministero ed il giorno successivo nell’udienza del Tribunale del riesame – quanto segue, omettendo, in questa sede, per rispetto alla privacy, i nomi delle persone con le quali ho avuto rapporti nella vicenda.

Nel 1985 ho fondato un gruppo di imprese in grado di rilevare ed analizzare i problemi delle imprese italiane, progettare macchinari ed impianti e prestare i servizi (finanziari, tecnici e commerciali) di supporto ai nuovi investimenti delle imprese clienti.

L’iniziativa aveva tre obiettivi fondamentali dichiarati: sollecitare le imprese italiane a compiere investimenti per aumentare l’occupazione e la produzione; sollecitare le stesse imprese a reinvestire la maggiore ricchezza prodotta a scopi produttivi; far partecipare i collaboratori del gruppo ai rischi ed ai risultati delle imprese. Un quarto obiettivo, ma dichiarato anche se il più importante, era quello di indurre le imprese clienti a fare operazioni trasparenti, senza «nero», per interrompere il processo di formazione dell’economia sommersa, che considero uno dei mali del nostro Paese.

Nel 1985 il sommerso in Italia, escluso quello derivante da attività illecite, era intorno al 18% del PIL e ritenevo che continuando in quel modo si sarebbe raddoppiato in vent’anni. Nel 2003, il sommerso è stato di oltre il 32% del PIL. Per questo motivo, l’Italia fa fatica a rientrare nel parametro di Maastricht relativo al rapporto fra disavanzo annuale pubblico e PIL e fra debito pubblico e PIL.

In pochi anni, l’iniziativa aveva avuto successo ma, il 15 marzo 1989, anche in seguito a lettere anonime (o presunte tali), la Guardia di Finanza iniziò una verifica fiscale su tutte le società del gruppo e, quando apparve evidente che non c’era nulla da contestare nei rapporti con i terzi (clienti e fornitori), pensò di contestare tutti i rapporti infragruppo, provocando un contenzioso di oltre 273 miliardi di vecchie lire.

Le commissioni tributarie di primo grado annullarono il 90% di tale contenzioso. In quindici anni, non esiste una sola sentenza tributaria definitiva al favore della amministrazione finanziaria nei confronti del gruppo, mentre sono definitive diverse sentenze tributarie a favore del gruppo.

Tuttavia, la Guardia di Finanza e gli uffici tributari iniziarono a diffondere informazioni negative sul gruppo. Perciò fui costretto ad «inventare» una struttura di imprese parallele alle quali, senza far figurare alcun rapporto con il gruppo, venne assegnato il compito di adempire a tutti i contratti stipulati da società del gruppo stesso.

Alla fine, per evitare continue verifiche e contestazioni, le società del gruppo hanno dovuto sospendere la loro attività in Italia.

Sono presidente di Holos Holding S.A., una società di partecipazioni che detiene direttamente o indirettamente alcune migliaia di società in tutto il mondo, con un capitale proprio di circa 14.800 miliardi di euro.

Una delle società di Holos Holding S.A. è Avatar S.p.A., una società italiana che, con un capitale di 199 miliardi di euro, risulta essere quella con il capitale sociale più alto del mondo.

Holos Holding S.A. promuove Holos Global System, un programma di trenta iniziative da realizzare in tutti i paesi per affrontare i problemi più sentiti ed urgenti dell’umanità: energia, acqua, cibo, salute, cultura, informazione, povertà, etc..

Holos Global System è stato presentato a tutti i capi di stato e di governo e molti di essi, con i quali si stanno programmando incontri, si sono dichiarati fortemente interessati.

Alcune delle trenta iniziative di Holos Global System riguardano progetti economici nazionali per l’occupazione e l’aumento della ricchezza prodotta, che prevedono la realizzazione di nuove imprese in tutti i paesi.

Una di queste iniziative riguarda, in Italia, un progetto economico nazionale per l’occupazione presentato fin dal 1995 alle istituzioni italiane, che prevede 19.070 nuove imprese in 6.800 comuni, per la maggioranza nel Sud, per le quali sono previsti investimenti del costo di circa 953,5 miliardi di euro in tre anni che saranno sostenuti unicamente da capitali privati.

In particolare, nella provincia di Reggio Calabria sono previste 371 imprese.

L’elaborazione del progetto per l’Italia è costata oltre 500 miliardi di lire fra il 1990 ed il 1993.

Dal 1995 al 1999 il progetto non si è potuto avviare per carenza dei suoli edificabili sui quali realizzare le nuove imprese.

Nel 2000 diversi comuni e consorzi industriali hanno comunicato di poter mettere a disposizione suoli edificabili mediante procedure di esproprio che sarebbero state accelerate se le imprese interessate avessero presentato i loro progetti sulla legge n. 488/92.

Nelle prime tre settimane di ottobre del 2000, erano stati resi disponibili 456 suoli e per questo motivo sono state costituite 456 società che il 31 ottobre hanno presentato i loro progetti sulla predetta legge, per un investimento complessivo di circa 22.500 miliardi di lire.

Le suddette imprese hanno richiesto un contributo basso (il 22% del costo) ed è stato comunicato al Ministero dell’Industria che avrebbero potuto ridurre la richiesta di contributo anche all’1% del costo, l’importante era che entrassero in graduatoria per poter mantenere le assegnazioni dei suoli.

Dei 456 progetti, 47 erano destinanti alle province della Calabria, ad eccezione di quella di Reggio Calabria, dove è prevista la realizzazione di una sola azienda, nella piana di Gioia Tauro, per la quale è previsto un investimento di 1.191 miliardi di vecchie lire (circa 615 milioni di euro), con un organico di 5.852 addetti, per il quale il Consorzio per l’Area di Sviluppo Industriale di Reggio Calabria (ASIREG) aveva assegnato un suolo di 180.000 metri quadrati.

Quest’ultima impresa fa parte di un progetto di tre aziende che dovranno produrre un piccolo aereo a decollo verticale (le altre due sono previste una in Sicilia ed una in Sardegna).

Nella penultima settimana di ottobre 2000, mentre si stavano preparando le pratiche relative alle domande che le 456 società promosse da Maguro S.p.A. e costituite il 20 e 21 ottobre 2000 – da altre dodici società italiane – hanno poi presentato il 31 ottobre 2000 sulla legge n. 488/92, un segnalatore di imprese, presidente di una società di marketing di Milano, mi chiese di incontrare presso la nostra sede un imprenditore che aveva un’esigenza impellente.

Nella stessa settimana venne da me l’imprenditore, insieme ad una sua collaboratrice. All’incontro era presente il segnalatore. L’imprenditore si presentò come amministratore di una società che stava realizzando tre nuove unità produttive a Gioia Tauro, per le quali erano previsti oltre cento addetti. I lavori erano stati appaltati ad una terza società. Disse di essere incappato in una certa società di Roma alla quale le opere erano state sub-appaltate e che quest’ultima, dopo aver assunto l’impegno di realizzare i tre impianti ed aver incassato gli anticipi, non aveva completato le opere e si era trasferita in Costa d’Avorio. Aggiunse che i beni oggetto dei tre investimenti erano stati prodotti da alcune industrie, dalle quali erano stati acquistati dalla società appaltatrice, e che i beni stessi erano già quasi completamente installati. Mancavano solo i fabbricati.

Mi spiegò che la società appaltatrice e gli altri produttori non erano in condizioni di fatturare i beni a prezzo pieno, cioè a prezzo di mercato, e mi chiese di mettergli a disposizione una società che potesse fornire i tre impianti «chiavi in mano», acquistando i beni dalla società appaltatrice al costo e fornendoli a prezzo di mercato alla sua società.

Essendo a conoscenza del fatto che, per dieci anni, una parte dei nostri utili erano stati destinati alle imprese clienti e/o ai loro soci, mi chiese quanto avrebbe potuto ottenere dalla differenza fra prezzo e costo di quei beni.

Ho risposto che, nonostante la ristrettezza dei tempi e gli impegni che avevamo, in considerazione del fatto che le imprese avrebbero creato posti di lavoro, se fosse risultato tutto regolare, l’operazione avrebbe potuto farla una società rappresentata da mio figlio Valerio e che l’85% dell’utile commerciale derivante dalla differenza fra prezzo e costo avrebbe potuto essere riconosciuta ai soci della sua società, come provento netto ai sensi dell’art. 81, comma c), del D.P.R. n. 916/86.

Per la precisione, la società rappresentata da Valerio avrebbe venduto a quella dell’imprenditore beni per lire 21.779.100.000 più IVA, per un totale di lire 26.134.920.000, ed avrebbe sostenuto costi per lire 14.924.600.000 più IVA, per un totale di lire 17.909.520.000, con un utile di lire 6.572.600.000, pari al 30,17% del prezzo di vendita. L’85% di lire 6.572.600.000, pari a lire 5.586.710.000, sarebbe stato erogato, sotto forma di plusvalenze da cessioni di partecipazioni, a favore dei soci della società dell’imprenditore, i quali avrebbero versato tale importo alla società stessa.

Non potendo quella società sopportare uscite per lire 26.134.920.000 a fronte di entrate di lire 5.586.710.000, senza prima aver riscosso le quote di contributo sulla legge n. 488/92, accettai di rimandare l’operazione e di far versare da una società, rappresentata da mio figlio Tristano, alla società dell’imprenditore un finanziamento, sotto forma di anticipo in conto acquisto partecipazioni, pari all’importo che la sua società avrebbe saldato a quella rappresentata da Valerio, rimandando l’operazione principale al momento in cui la società dell’imprenditore, dopo aver riscosso le quote di contributo, avesse potuto rimborsare la società rappresentata da Tristano: in quel momento, la società dell’imprenditore avrebbe versato a quella di Tristano lire 26.134.920.000, la società di Valerio avrebbe versato al vecchio appaltatore lire 17.909.520.000 ed una nostra società avrebbe riconosciuto ai soci della società dell’imprenditore lire 5.586.710.000 che i soci stessi avrebbero contestualmente versato nella loro società.

Prima di dare il mio assenso, ebbi un dubbio e lo dissi all’imprenditore. La società di Valerio avrebbe avuto funzioni di mera intermediazione nell’operazione, mentre trattandosi di fornire beni oggetto di finanziamento sulla legge n. 488/92, sarebbe stato necessario che l’investimento fosse stato «particolarmente complesso».

Mi rivolsi ad un collaboratore, che mi rassicurò sul fatto che, secondo precedenti in materia, l’estrema brevità di tempo rispetto ad un investimento di quelle dimensioni poteva configurare il caso di «particolare complessità».

Chiesi all’imprenditore di far preparare lui i contratti e, quando se ne andò, spiegai a Tristano e Valerio ciò che avevo concordato. L’imprenditore non trasmise mai contratti alla società di Valerio.

Immediatamente furono emesse le fatture dalla società di Valerio nei confronti di quella dell’imprenditore e Tristano ordinò le relative operazioni bancarie, con un’operazione di bonifici consecutivi normalmente adottata da numerose medie e grandi aziende e banche italiane ed estere. La società di Tristano prestò alla società dell’imprenditore i soldi con i quali la stessa saldò le fatture emesse dalla società di Valerio.

Dopo il sequestro dei documenti contabili alla società di Valerio, fui informato da un collaboratore che aveva partecipato alle operazioni di sequestro che, forse, secondo quanto aveva potuto sentire dai militari operanti in quella occasione, i beni oggetto delle fatture emesse dalla società di Valerio non erano tutti nuovi.

Quando ho rivisto l’imprenditore, che nel frattempo non aveva potuto far fronte agli accordi che avevamo preso nel primo incontro, gli ho chiesto se i beni fossero nuovi o usati e mi rispose che i beni oggetto del finanziamento sulla legge n. 488/92 erano nuovi e che solo alcuni impianti integrativi erano usati e revisionati.

Quando gli eccepii che non me lo avesse mai detto prima, mi rispose che io non glielo avevo chiesto. Replicai che, trattandosi di beni oggetto di finanziamento sulla legge n. 488/92, per me era scontato che fossero nuovi ed aggiunsi che, chiedendo, nel primo incontro, se l’operazione fosse regolare, intendevo anche chiedere se i beni fossero idonei ad essere oggetto di un’operazione di piena legalità. Mi ha chiesto scusa.

Nonostante i reiterati inviti e qualche diffida (tutte le lettere citate nell’ordinanza sono scritte o ricevute da me, sollecitato dagli organi di controllo delle società di Tristano e Valerio), non è mai stato rimborsato l’importo versato dalla società di Tristano, salvo un importo di circa lire 1.000.000.000.

Comunque, i beni esistono, sono stati effettivamente ceduti dalla società di Valerio a quella dell’imprenditore, i prezzi indicati nelle fatture corrispondono a quelli pagati. In tale fattispecie, secondo il combinato disposto di cui agli artt. 1, 2 ed 8 del D.Lgs. n. 74/2000, non si può ravvisare emissione o utilizzazione, di fatture per operazioni inesistenti.

Circa altri elementi dell’ordinanza, ho osservato quanto segue.

Non esiste alcun gruppo Maguro. La società Maguro S.p.A. ha detenuto soltanto partecipazioni in società del Gruppo Carisma, poi cedute, e non ha mai detenuto partecipazioni nelle società rappresentate da Tristano Valerio, due società che, fra l’altro, fanno parte di un progetto diverso da quello di Maguro S.p.A..

Anche per quanto riguarda il procedimento in corso presso la Magistratura di Lecce – in relazione alle domande presentate il 31/10/2000 sulla legge n. 488/92 da 456 nuove imprese costituite nell’ambito del progetto economico nazionale presentato da Maguro S.p.A. – è stato ampiamente precisato che Maguro S.p.A. ha solo promosso, cioè proposto ad altri soggetti, che hanno accettato, di fondare nuove imprese e di finanziarle con capitali privati, mentre non ha mai partecipato alla loro costituzione né le ha mai detenute.

Dopo il 31/10/2000 nessuna delle imprese promosse da Maguro S.p.A. ha mai più presentato domande di finanziamenti pubblici.

I fatti relativi al procedimento in oggetto sono avvenuti entro il 2000 e, da allora, sono trascorsi oltre tre anni, senza che quei fatti, a prescindere dalla loro legittimità, che continuo a riaffermare, si siano mai ripetuti.

Della società di questo imprenditore ho parlato io, spontaneamente, al G.I.P. di Lecce, durante l’interrogatorio di garanzia; ho poi risposto, per quello che mi ricordavo, alle domande del Pubblico Ministero di Lecce.

Tutto quanto è stato richiesto nel corso delle indagini relative al procedimento in oggetto è stato esibito alla P.G. e non esistono altri documenti che possano essere ricercati e/o di cui possa essere ostacolata la ricerca.

Non avevo mai chiesto di essere sentito per questo procedimento solo perché indagato mi risultava essere solo l’imprenditore che avevo conosciuto nella penultima settimana di ottobre 2000.

Circa la mia personalità, Le avrei spiegato quando e perché sono stato condannato per reati mai commessi, come cercherò di dimostrare nelle sedi competenti. Le avrei spiegato da dove e perché è nato il procedimento penale di Palermo e quello di Lecce. Le avrei spiegato perché nella notizia di reato relativo a questo procedimento la Guardia di Finanza ha scritto cose non vere e mi ha attribuito fatti considerandoli reati che invece, leggendo semplicemente le norme, anche senza consultare la relativa dottrina e/o giurisprudenza, è facile stabilire che reati non sono.

Questo Le avrei detto, signor Giudice. Non Le avrei detto «come vi siete permessi?» ma, in modo composto, senza polemiche, come credo di essermi comportato da quando sono rimasto bloccato dalla Sua ordinanza, Le avrei esposto quanto avessi ritenuto utile per la mia difesa ed avrei risposto direttamente, se me le avesse poste, alle Sue domande, come prevede l’art. 294 c.p.p., secondo le forme di cui all’art. 65 c.p.p..

E non credo che sarebbe stato inutile che, dopo aver studiato per due mesi (come Ella ha dichiarato), la richiesta del Pubblico Ministero del 15 ottobre 2004, avesse ascoltato, senza provocazioni, chi, e cioè io, aveva concordato quell’operazione. A meno che non avesse già in mente di convalidare il Suo provvedimento, perché non si deve pensare che un magistrato dispone una misura cautelare di questo tipo per poi revocarla dopo dieci giorni per insussistenza di indizi di colpevolezza né, tanto meno, di esigenze cautelari, considerato anche il fatto che i fatti di questo procedimento sarebbero una continuazione di quelli relativi al procedimento di Lecce, per i quali io, i miei figli ed altre persone oneste, avevano già subito una ingiusta misura cautelare. Sarebbe meglio che prima di emettere provvedimenti con misure che i G.I.P. hanno il potere di disporre, si valutassero con la massima responsabilità, informazione e cultura i loro effetti. E per quanto riguarda gli importi, che a Lei sono apparsi assai consistenti, mi permetta di osservare che tutto è relativo e che quelli relativi a questa vicenda corrispondono al fatturato annuale di un negozio di Milano.

E guardi, signor Giudice, che se avesse revocato la Sua ordinanza, non solo per insussistenza di esigenze cautelari (è stato sequestrato tutto, quindi non esiste pericolo di inquinamento delle prove; sono passati oltre tre anni, quei fatti non si sono più ripetuti e questo esclude il pericolo di reiterazione) ma anche per assoluta insussistenza di gravi indizi di colpevolezza (poiché, signor Giudice, noi siamo stati truffati, capisce? Noi siamo stati truffati!), stia certo che non sarei andato a farmi fare interviste dalla stampa. Non ne ho bisogno. E sono dieci anni che non mi faccio intervistare da alcuno. Comunque, non si può dire «non posso revocare perché poi lui va a farsi fare le interviste dalla stampa». Sarei andato alle Mauritius, questo sì, non in vacanza ma per lavoro. E sarei tornato oggi o domani.

Ho letto l’ordinanza del 25 febbraio 2004 con la quale ha revocato le misure a Tristano e Valerio, sulla quale si legge che «Ritenuto che alla luce di quanto evidenziato in sede di interrogatorio di convalida – confermato in toto dall’altro indagato MARUSI GUARESCHI Tristano, padre degli indagati citati – ed ossia di aver agito nella consapevolezza della liceità delle operazioni, di non aver mai incontrato il … [l’imprenditore] e di aver eseguito le indicazioni del padre – amministratore di fatto delle società … [quelle rappresentate da Tristano e Valerio] – se risultano confermati i gravi indizi di colpevolezza indicati nell’originario provvedimento restrittivo, al contempo appaiono scemate le esigenze cautelari poste a sostegno dell’ordinanza custodiale.»

«Scemare» significa ridurre, diminuire, venir calando, diminuire d’energia, d’intensità, di quantità o di autorità: deriva dal latino parlato «exsemare», che propriamente significa togliere (ex-) la metà (semis).

Nel corso dell’interrogatorio, quando ho osservato che il testo della richiesta di misure che si legge sulla Sua ordinanza sembra preso letteralmente dal testo dell’ordinanza del G.I.P. di Lecce e da quello della notizia di reato della Guardia di Finanza di Roma, che a sua volta sembra preso nello stesso modo dalla notizia di reato della Guardia di Finanza di Lecce, che a sua volta sembra preso nello stesso modo da quello della Guardia di Finanza di Parma, Lei mi ha precisato che il G.I.P. non firma ma redige l’ordinanza. Sarà vero, ma la Sua ordinanza è numerata a stampa a pagina 1, poi è numerata a mano fino a pagina 92. Sembra proprio che da pagina 2 a metà pagina 87, fino a prima del punto in cui si legge «Alla luce di quanto sopra …», in carattere di scrittura diverso da quello delle pagine precedenti, sia la copia della richiesta del Pubblico Ministero.

Comunque, io credo sempre a tutti fino a prova contraria. Bene, allora, se l’ordinanza del 25 febbraio 2004 è stata scritta da Lei, Le ricordo che io, padre di Tristano e Valerio, mi chiamo Rodolfo, e deduco che, evidentemente, Lei non crede che Tristano e Valerio (ed anche io) abbiamo agito nella consapevolezza della liceità delle operazioni, altrimenti non avrebbe scritto che «risultano confermati i gravi indizi di colpevolezza indicati nell’originario provvedimento restrittivo».

Osservo anche che Lei mi considera (anzi, lo da per scontato) che io sia amministratore di fatto delle società rappresentate da Tristano e Valerio e che quindi Lei pensa che, per aver detto ai miei figli di fare un piacere ad una persona che mi sembrava affidabile, io sia amministratore di fatto di tutte le società promosse, alle quali potrei dedicare, in tal caso, meno di dieci secondi per ogni 24 ore.

Avrei altro da dirLe, signor Giudice ma, non servirebbe. Mi auguro soltanto che, per essermi occupato, da luglio ad ottobre del 2000, di circa 500 società che volevano e vogliono fare investimenti, non debba subire, dopo Lecce e Palmi, altri 498 provvedimenti di custodia cautelare.

Distinti saluti.

Sant’Ilario d’Enza, lì 26 febbraio 2004

Rodolfo Marusi Guareschi